1.3 Diritti Umani e discorsi d’odio

I discorsi d’odio

In Italia non esiste una definizione giuridica di crimine d’odio. Viene in genere utilizzata quella elaborata dall’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti Umani (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) in base alla quale il crimine d’odio è un reato, commesso contro un individuo e/o beni ad esso associati, motivato da un pregiudizio che l’autore nutre nei confronti della vittima, in ragione di una “caratteristica protetta” di quest’ultima. Il crimine d’odio, quindi, si caratterizza per la presenza di due elementi: un fatto previsto dalla legge penale come reato (cosiddetto reato base) e la motivazione di pregiudizio in ragione della quale l’aggressore sceglie il proprio “bersaglio”. Questo è il motivo per cui i crimini d’odio vengono anche definiti target crimes o message crimes per evidenziare che si tratta di reati con uno specifico bersaglio, attraverso i quali l’autore intende lanciare un messaggio di non accettazione di quella persona e della relativa comunità di appartenenza.

L’espansione del Web e l’avvento dei social network hanno reso la comunicazione sempre più immediata, grazie ad una tecnologia facilmente accessibile che rende istantanea la diffusione delle informazioni a livello globale. Anche il discorso d’odio ha trovato in rete un fertile terreno di diffusione obbligando tutti gli attori coinvolti – le istituzioni pubbliche, tra le quali le forze di polizia, le organizzazioni della società civile ed i singoli utenti – a confrontarsi con nuove sfide. Secondo diversi autori, l’odio on line si caratterizza per essere:

1. permanente nel tempo: il discorso d’odio tende a restare on line per molto tempo; più a lungo rimane accessibile, più elevato è il rischio che produca effetti dannosi;

2. itinerante e ricorrente: l’architettura delle piattaforme web influenza molto la dinamica della diffusione, che può essere itinerante e ricorrente. Un contenuto rimosso, infatti, può apparire sotto un altro nome e/o titolo sulla stessa piattaforma o altrove (non a caso si dice che il Web non dimentica);

3. associato all’idea di anonimato e impunità: il proliferare di espressioni di odio è favorita dall’idea di anonimato e di impunità associata all’utilizzo di internet e dalle modalità di interazione sui social network.

Gli autori di hate speech spesso non riflettono sulle possibili conseguenze dei propri atti e non percepiscono il potenziale impatto dei loro messaggi d’odio sulla vita reale delle persone. Diversi studi hanno dimostrato che i cosiddetti “leoni da tastiera” non manifestano in quei termini il loro odio quando sono offline. La natura stessa del Web rende evidente il fatto che il contrasto all’hate speech on line non possa essere affrontato dai singoli Paesi, ma necessiti, invece, di un approccio su base internazionale.

Per questo è nata la Campagna “No Hate Speech Movement”, un’iniziativa giovanile internazionale (ha coinvolto nel tempo 44 Paesi), che promuove educazione ai Diritti Umani, media literacy, partecipazione giovanile, contronarrazioni e narrazioni alternative. È nata in seno al Dipartimento Gioventù del Consiglio d’Europa, a seguito dell’attentato terroristico di Utoya del 22 Luglio 2011, che provocò 69 vittime e 110 feriti. In Italia è attualmente implementata dal Gruppo di Coordinamento Nazionale, organismo composto da giovani attivisti e organizzazioni.

La campagna ha come scopo quello di contrastare gli episodi di odio e intolleranza verso “il diverso”, che sono in preoccupante aumento nel nostro Paese, soprattutto tra i giovani. In particolare “No hate speech movement Italia” mira a combattere il razzismo e la discriminazione nella loro espressione online, cercando di favorire la costruzione di un fronte comune che combatta i messaggi discriminatori ed ogni forma di violenza e di odio.